l 3 maggio dal 2021 in poi per Emma Marrazzo è diventato un giorno di lotta per la giustizia nel nome della figlia stritolata dall’orditoio della fabbrica in cui lavorava
Luana D’Oeazio, la mamma di 22 anni morta in fabbrica
Il 3 maggio è il compleanno di Emma Marrazzo, ma dal 2021 quel giorno ha assunto un nuovo e doloroso significato. Emma è la mamma diLuana D’Orazio, che proprio in quella data è morta a 22 anni in quello che un perito ha descritto come un «abbraccio mortale», stritolata dal macchinario a cui lavorava, un orditoio manomesso, presso un’azienda tessile di Montemurlo, vicino Prato. Da allora, ogni 3 maggio per Emma non è più un giorno di celebrazione ma di commemorazione e di lotta per la giustizia. «Per ricordare a me stessa che sono una sopravvissuta, non c’è più niente da festeggiare», confida la donna al Corriere della Sera nel giorno della ricorrenza.
Il figlio di Luana – Quel giorno di tre anni fa è impresso nella sua memoria. «Erano le 13,40 quando suonarono alla porta. Andai ad aprire e vidi due carabinieri. Uno di loro era chinato sul cancello… come se fosse disperato», racconta. Quando le comunicarono la morte della figlia, il rifiuto di accettare la realtà si trasformò in un gesto di disperazione: «Gli ho tirato lo stendino, le mollette, ripetevo: non è vero, non è vero niente. Vada a prenderla e me la porti qui». La forza di continuare a vivere Emma Marrazzo la trova nel nipote Alessio, il figlio che Luana aveva avuto da giovanissima e che oggi ha otto anni. «Non chiede di sua madre», dice Emma, «ma quando giochiamo, quando guardiamo la tivù, quando facciamo qualcosa che gli ricorda lei, me lo fa sempre notare».
I messaggi su Whatsapp – Emma Marrazzo conserva il cellulare di Luana, attraverso il quale continua a inviarle messaggi vocali e foto di Alessio che cresce, trovando talvolta nelle immagini memorizzate presagi di eventi passati.
Una foto in particolare ha colpito Emma: «È un montaggio che Luana fece pochi mesi prima di morire: si vede lei che affida il suo bambino alle braccia di Gesù».
Omicidio sul lavoro – La battaglia di mamma Emma è ora per l’introduzione nel codice penale dell’omicidio sul lavoro, nonostante il ministro della Giustizia si sia detto contrario: «Vorrei chiedere al ministro: lei metterebbe sua figlia davanti a un macchinario senza protezioni? Non tutti gli incidenti sul lavoro sono dolosi ma nel nostro caso lo era. C’è stato dolo nel manomettere quell’orditoio. E questo io lo chiamo omicidio, non infortunio».
E’ morto all’età di 92 anni, David Messina, decano del giornalismo sportivo e grande firma del calcio. Per 15 anni è stato anche presidente Glgs-Ussi Lombardia, il gruppo dei giornalisti sportivi che ne ha dato notizia, esprimendo il suo cordoglio per la scomparsa di un ‘maestro‘ della professione.
Palermitano, laureato in giurisprudenza, David Messina ha debuttato da giovane in Sicilia nel giornalismo sportivo come corrispondente locale di Tuttosport, per essere presto chiamato a Milano in virtù delle sue qualità professionali. Ha lavorato per la Stampa, il Corriere dello Sport e quindi alla Gazzetta dello Sport, dove la sua firma è stata sempre in primo piano nelle pagine del calcio.
“Il titolo di ‘maestro’ gli è dovuto soprattutto per essere stato uno dei pionieri, se non l’inventore, delle cronache di calciomercato in tempi ormai lontani – ha scritto sul suo sito Glgs-Ussi Lombardia -. Notevole anche la sua partecipazione come autore e conduttore a programmi tv sportivi, oltre a quella di autore di libri di tema calcistico“.
Un incendio è scoppiato in una fabbrica a Berlino, in Germania. I vigili del fuoco hanno lavorato tutta la giornata per spegnere le fiamme. I cittadini, allertati per il rischio fumi tossici, sono stati avvisati tramite app
Una fabbrica chimica a sud-ovest di Berlino, in Germania, è stata completamente avvolta dalle fiamme venerdì. I vigili del fuoco hanno invitato i residenti nelle vicinanze della fabbrica a prestare attenzione ai “fumi tossici causati dall’incendio“.
Le persone sono state invitate a evitare la zona e i residenti delle case vicine a Berlino-Lichterfelde sono stati invitati a chiudere le finestre e le porte e a spegnere i sistemi di ventilazione e di condizionamento dell’aria.
Circa 170 vigili del fuoco hanno operato sul posto per combattere l’enorme incendio. Il rogo, scoppiato in un locale tecnico al primo piano dell’edificio a più piani, ha avvolto l’intera fabbrica. Gli specialisti stanno effettuando misurazioni dell’aria per determinare l’eventuale presenza di sostanze nocive.
Il 4 maggio di 75 anni fa l’incidente aereo sulla collina torinese trasformò la squadra più forte di tutte, già leggendaria sul campo, in un gruppo di eroi. Oltre mezzo milione di persone partecipò ai funerali
Foto Olycom
Il silenzio, il cielo che diventava scuro, la folla. Immensa. Cinquecentomila persone, forse di più. Era il 6 maggio del 1949, un venerdì. Si fermava Torino, si era fermata l’Italia. Si svolgevano, nel tardo pomeriggio, i funerali delle vittime della tragedia di Superga. Nello schianto di due giorni prima, contro il terrapieno della Basilica sulla collina che sovrasta la città, aveva perso la vita una delle più forti squadre mai viste su un campo di calcio, quella granata, insieme ai suoi accompagnatori, a tre giornalisti e ai membri dell’equipaggio del trimotore G-212 delle Avio Linee Italiane. Trentun morti. Per poter essere seguito da più gente possibile, il corteo funebre aveva compiuto un giro lunghissimo. I feretri erano usciti da Palazzo Madama e, una volta caricati su alcuni camion, avevano imboccato via Roma, attraversato piazza San Carlo, raggiunto piazza Carlo Felice, girato in corso Vittorio Emanuele II, preso corso Re Umberto, via Alfieri, piazza San Giovanni e infine erano arrivati davanti al Duomo. Un milione di occhi piantati su quel percorso, e deserte tutte le altre strade. Al momento della benedizione la facciata della cattedrale aveva perso tutta la sua luce, era pallida, e così l’intera piazza. Si faticava a vedere. Come due giorni prima, in aria
— La Gazzetta dello Sport (@Gazzetta_it) May 4, 2024
TORINO, UNA SQUADRA DI CAMPIONI – Gli eroi son tutti giovani e belli, cantava Guccini. Chi ha esaltato le folle e muore, all’improvviso e così tragicamente, si trasforma automaticamente in leggenda. La scomparsa cristallizza la bellezza dei gesti, la pulizia dei comportamenti, evita la parabola discendente e l’inevitabile invecchiamento, che non sempre si rivela felice. Ma a volte la trasformazione non serve, perché la leggenda è già in corso da un pezzo. Quel Torino aveva praticamente vinto il suo quinto scudetto consecutivo, giocava un calcio meraviglioso e prima di allora non si era visto in Italia niente del genere. Era una squadra nata da lontano, da quando Ferruccio Novo nell’estate del 1939 era diventato presidente e aveva iniziato a costruire il gruppo, pezzo per pezzo. Lo aveva fatto insieme a Roberto Copernico, titolare di un negozio di abbigliamento in città e consigliere fidato. Le tessere si erano incastrate come pianificato, e a un certo punto vennero fuori gli imbattibili. Bacigalupo era un signor portiere, che aveva rapidamente digerito l’amarezza di un Italia-Ungheria del 1947 in cui scesero in campo con la maglia azzurra 10 giocatori del Toro e, tra i pali, Sentimenti IV della Juve.
I terzini erano Ballarin, forte fisicamente, e Maroso, dotato di classe come pochi. I granata giocavano con il “sistema”, cioè il WM (dove W e M rappresentano il modo in cui venivano disposti in campo i calciatori), e dunque davanti ai terzini stavano il classico Grezar da una parte e l’efficace Castigliano dall’altra, con in mezzo Rigamonti che passando da esuberante a ordinato risolse il problema del centromediano. In attacco, da destra a sinistra, Menti (ala dal gran tiro), Loik (quella che allora si definiva mezzala di fatica), Gabetto (centravanti che si muoveva molto ma segnava altrettanto), Valentino Mazzola (il fuoriclasse assoluto, capitano e fenomeno a tutto campo) e infine Ossola, il più tecnico e forse quello che si sarebbe meglio adattato al calcio di oggi, ricco di tattiche e schemi. Erano speciali anche le riserve: Tomà (il vice Maroso), Martelli (nel ruolo di Grezar), Fadini (mediano di classe) e poi in avanti il francese Bongiorni,Grava e Schubert, romeno nato a Budapest. Ad allenarli, negli anni, furono in diversi: Antonio Janni, Luigi Ferrero, Mario Sperone e poi l’inglese Leslie Lievesley affiancato come direttore tecnico dall’ungherese Egri Erbstein, che aveva ricoperto quel ruolo dal 1943.
LE MANICHE DI MAZZOLA – Vincevano tantissimo ma senza segreti particolari. Contavano sulla forza della semplicità, in campo erano tosti e fuori andavano d’accordo. La città li amava e rispettava ma senza idolatrarli: Ossola e Gabetto erano proprietari di un bar in centro e quando non si allenavano passavano le ore con i clienti. La squadra aristocratica e un po’ funambolica restava a quei tempi la Juventus, il Toro rappresentava la solidità concreta e vincente. Tant’è vero che durante la Guerra, per evitare la deportazione nelle industrie belliche in Germania, i granata vennero inquadrati come dipendenti della Fiat – che produceva utilitarie – mentre i bianconeri finirono con la Cisitalia, che creava modelli di design. Ci sono tutte quelle storie – vere peraltro – sui dieci minuti in cui decidevano di vincere le partite, sul ferroviere Bolmida che suonava la tromba e allora Mazzola si rimboccava le maniche e il destino della partita cambiava. Ma non serve esagerare con la retorica, talento e doti atletiche venivano riconosciute da tutti. Boniperti, l’uomo più juventino di sempre, raccontò: “Cos’era Mazzola? Era l’uomo che si materializzò, durante un derby, sulla linea della sua porta per fermare di tacco un pallone che avevo calciato a colpo sicuro e mi aveva ormai fatto gridare al gol, e pochi secondi dopo, mentre deluso rientravo a centrocampo e alzavo la testa chinata per la delusione, segnava un gol nell’altra porta”. Era un gruppo di grandi atleti diventati campioni, ma restavano brave persone uscite dalla Guerra. Ammirate in Italia perché quella squadra, con le sue imprese, faceva tornare tutti a vivere. E invece proprio lei, di colpo, morì.
L’ALTIMETRO GUASTO – Alle 17.02 di mercoledì 4 maggio l’equipaggio aveva chiamato per l’ultima volta la torre di controllo di Torino. Il pilota – che di cognome faceva Meroni, per dire come la storia granata sia piena di ricorsi del destino – contava di virare di 290 gradi di prua per allinearsi sulla pista di atterraggio. Ma il forte vento di libeccio aveva spostato la rotta dell’aereo e l’altimetro, guasto, segnava 2000 metri quando invece il G-212 viaggiava a 600. Di colpo, dalla nebbia mista a pioggia, sbucò la basilica. Alle 17.05 la torre di controllo chiamò l’equipaggio. Non ci fu risposta.
I fatti risalgono alla scorsa estate, quando il difensore era stato fermato a bordo della sua Maserati a Torino. Il difensore avrebbe potuto chiudere la vicenda pagando una sanzione di 5mila euro, ma si è opposto al decreto penale di condanna
Daniele Rugani è a processo per guida in stato di ebbrezza. I fatti risalgono alla scorsa estate, alla notte del 21 luglio 2023, quando è stato fermato a bordo della sua Maserati da un posto di blocco della Polizia locale a Torino, in corso Grosseto, e il suo livello all’alcoltest è andato oltre le misure consentite dai termini di legge: prima rivelazione 1,56, seconda 1,54, tre volte il limite massimo. Per il difensore della Juventus sono scattati immediatamente il ritiro della patente e un decreto penale di condanna, che avrebbe potuto cancellare dopo due anni pagando subito 5 mila euro. Il calciatore ha deciso invece di opporsi andando a processo: ieri il giudice Roberto Ruscello ha rigettato però la richiesta di messa alla prova presentata dai legali, la prossima udienza è stata fissata per il 23 maggio 2024.
PROCESSO – Rugani avrebbe preferito scontare la pena con lavori di pubblica utilità, dunque all’interno di associazioni o enti senza scopo di lucro a titolo di risarcimento del danno arrecato con la sua condotta alla società civile: richiesta rigettata perché presentata fuori tempo massimo. Di conseguenza, il calciatore dovrà sottoporsi a processo, con la possibilità di coinvolgere testimoni e avere il supporto di perizie. La difesa proverà a contestare ancora la sanzione.