Marcinelle, 68 anni dalla tragedia: quando gli immigrati erano gli italiani. «No animali, no stranieri», i 262 minatori morti e l’ultimo identificato a marzo
08 agosto 2024

Carbone dal Belgio in cambio di minatori dall’Italia. Con questa promessa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i giovani italiani avevano lasciato casa per aderire al protocollo che avrebbe garantito al Paese l’approvviggionamento di quelle materie prime così necessarie alla ripresa economica. Tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia. Di questi, 136 morirono in quella che è passata alla storia come la tragedia di Marcinelle: l’8 agosto 1956, esattamente 68 anni fa, persero la vita in totale 262 minatori di dodici nazionalità diverse.
La tragedia di Marcinelle– L’incidente di Marcinelle si verificò l’8 agosto 1956 nella miniera di carbone di Bois du Cazier, appena fuori la cittadina belga di Marcinelle, dove si sviluppò un incendio che causò una strage. Morirono 262 minatori, di cui 136 italiani, per le ustioni, il fumo e i gas tossici. Causa dell’incidente, rivela Focus Cultura Storia, fu un malinteso sui tempi di avvio degli ascensori. Si disse che all’origine del disastro fu un’incomprensione tra i minatori, che dal fondo del pozzo caricavano sul montacarichi i vagoncini con il carbone, e i manovratori in superficie. Il montacarichi, avviato al momento sbagliato, urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Erano le 8 e 10 quando le scintille causate dal corto circuito fecero incendiare 800 litri di olio in polvere e le strutture in legno del pozzo. L’incendio si estese alle gallerie superiori, mentre sotto, a 1.035 metri sottoterra, i minatori venivano soffocati dal fumo. Solo sette operai riuscirono a risalire. In totale si salvarono in 12. Il 22 agosto, dopo due settimane di ricerche, mentre una fumata nera e acre continuava a uscire dal pozzo sinistrato, uno dei soccorritori che tornava dalle viscere della miniera non poté che lanciare un grido: «Tutti cadaveri». Ci furono due processi, che portarono nel 1964 alla condanna di un ingegnere (a 6 mesi con la condizionale). In ricordo della tragedia, oggi la miniera Bois du Cazier è patrimonio Unesco.
Il dramma degli italiani – La tragedia della miniera di carbone di Marcinelle è soprattutto una tragedia degli italiani immigrati in Belgio nel dopoguerra. Tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia. Era il prezzo di un accordo tra Italia e Belgio che prevedeva un baratto: l’Italia doveva inviare in Belgio 2mila uomini a settimana e, in cambio dell’afflusso di braccia, Bruxelles si impegnava a fornire a Roma 200 chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore.
L’Italia a quell’epoca soffriva ancora degli strascichi della guerra: 2 milioni di disoccupati e grandi zone ridotte in miseria. Nella parte francofona del Belgio, invece, la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone frenava la produzione. Per convincere gli uomini a lavorare nelle miniere belghe, si affiggono in tutta Italia manifesti che presentano unicamente gli aspetti allettanti di questo lavoro (salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato). In realtà, le condizioni di vita e di lavoro sono veramente dure. All’arrivo a Bruxelles, comincia lo smistamento verso le differenti miniere, dopodiché i lavoratori vengono accompagnati nei loro ‘alloggi’, le famose ‘cantines’: baracche, insomma, o ‘hangar’, gelidi d’inverno e cocenti d’estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra. La mancanza di alloggi convenienti, previsti peraltro dall’accordo italo-belga, impedisce alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto è infatti quasi impossibile all’epoca. Senza contare la discriminazione. Spesso sulle porte delle case da affittare, i proprietari scrivono a chiare lettere ‘ni animaux, ni etranger’ (né animali, né stranieri). Un’integrazione difficile, dunque, a cui si sommano le condizioni di lavoro particolarmente dure e insalubri, nonché le scarse misure di igiene e sicurezza. Tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovano così la morte nelle miniere belghe.
Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo – La strage divenne un simbolo del sacrificio e delle sofferenze dei lavoratori italiani all’estero, portando a una maggiore consapevolezza sociale e istituzionale. La giornata dell’8 agosto è stata proclamata ‘Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo‘, un momento di riflessione e di riconoscimento per tutti coloro che, spesso nell’ombra e nel silenzio, hanno contribuito con il loro lavoro e il loro sacrificio allo sviluppo economico e sociale non solo dei Paesi ospitanti, ma anche della propria nazione d’origine. Questo ricordo annuale, quest’anno il 68° anniversario, sottolinea l’importanza di una maggiore attenzione verso i diritti dei lavoratori migranti e la necessità di politiche che garantiscano condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti
Identificato dopo 68 anni – Nel 2018 erano ancora 14 le vittime senza nome della tragedia di Marcinelle. Negli ultimi sei anni, grazie ad un’accurata ricerca scientifica attraverso l’analisi del Dna, sollecitata nel 2018 dai parenti di una delle vittime, Francesco Cicora, e affidata all’Incc (Institut National Criminalistique et de Criminologie) del Belgio, è stato possibile identificare tre dei minatori rimasti intrappolati. L’ultimo, in ordine di tempo, è Rocco Ceccomancini, di non più di 19 anni, proveniente da Turrivalignani, in Provincia di Pescara. Così come avvenuto per le altre due vittime riconosciute, Oscar Pellegrims e Dante Di Quilio, si è giunti alla identificazione con il confronto del Dna fornito dai parenti.
Il museo – Tra i testimoni oculari della tragedia di Marcinelle c’è Lino Rota, oggi 95enne, che dopo aver passato in Belgio 25 anni da immigrato è tornato nella sua Nembro, nella Bergamasca, determinato a coltivare la memoria di quello che è stato. Per farlo, insieme alla moglie Mariuccia, ha dato vita al Museo della Miniera e dell’Emigrazione. Qui, in quella che ha tutta l’aria di essere l’ingresso di una miniera, Rota mantiene vivo il ricordo: quel giorno del 1956 si trovava nel gruppo soccorritori in una miniera non lontana da quella dell’incidente e fu uno dei primi ad arrivare sul posto.


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